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Riccardo Orizio

Sudan. “Ho assistito alla tratta dei neri, 180 mila lire per uno schiavo”
Come accadeva due secoli fa, i mercanti di uomini sono tornati in pienaattivita in diversi Paesi del continente.

Corriere della Sera, 17 febbraio 1998

Sembra un dagherrotipo tratto da un archivio storico dell'Ottocento: una lunga fila di ragazzini seminudi camminano lenti nel deserto; li guida un uomo in sottana bianca - forse un arabo - che nasconde il volto; il sole è quello eterno dell'Africa, in un angolo del Sudan meridionale che si chiama Madhol. La fotografia, invece, viene dalla cronaca dei nostri giorni. La carovana di schiavi catturata dall'obiettivo è una delle tante che marciano silenziosamente attraversando la regione del Sahara, esattamente come accadeva due secoli fa. Guidate da mercanti che vendono schiavi nei Paesi del Golfo, Egitto e Medio Oriente. Nell'immagine mancano le catene, ma solo per una ragione: quei bambini sono appena stati liberati, anzi riscattati, dall'organizzazione umanitaria svizzera Christian Solidarity International.

Pagando 180 mila lire a testa - tanto viene quotata una vita umana alla Borsa della schiavitù moderna - gli inviati di Christian Solidarity li hanno trasformati in liberti. E il mercante di uomini si comporta come un qualsiasi rappresentante di commercio: fatto l'affare, consegna la «merce» a domicilio, cioè nel piccolo campo profughi allestito dall'organizzazione umanitaria in mezzo al deserto. Di ragazzini come quelli l'Africa è piena. La tratta degli schiavi è stata abolita dagli Stati Uniti nel 1808, dalla Francia nel 1815, dal Portogallo nel 1830.
Eppure, il commercio è ancora in pieno svolgimento in diversi Paesi africani. Negli ultimi tre anni i guerriglieri della Lord Resistance Army (un gruppo ribelle del Nord dell'Uganda) hanno rapito 10 mila bambini tra i 10 e i 15 anni nei distretti di Gulu e di Kitgum. E li hanno trasformati in soldati, in carne da cannone da mandare all'attacco contro l'esercito regolare ugandese. In Mauritania sarebbero 90 mila gli schiavi ancora in catene. Nel Sudan - spaccato tra Nord islamico e Sud cristiano e animista - gli schiavi sono molti di più. Tutti catturati nelle regioni meridionali del Paese, soprattutto tra i villaggi della minoranza Denka. Secondo la Anti Slavery Society, cioè l'associazione londinese che nell'Ottocento guidò il movimento abolizionista ma che non si è mai sciolta, molti schiavi arrivano in Europa attraverso i Paesi del Maghreb. Molti finiscono nei Paesi arabi, dove il concetto di schiavitù domestica non è mai stato del tutto rinnegato.

I governi africani e arabi reagiscono a queste accuse: l'Occidente, dicono, ci vuole screditare. Ma la Chiesa cattolica testimonia il contrario. Il nunzio apostolico a Rumbek (Sudan), monsignor Cesare Mazzolari, ha recentemente confermato al quotidiano Avvenire di aver riscattato trecento bambini, ma di aver poi rinunciato a questa forma di liberazione perché «è una goccia d'acqua nel mare». In sostanza, lo schiavismo non può essere combattuto solo con i dollari. E' all'opinione pubblica internazionale che tocca fare la voce grossa, dopo aver fatto finta di nulla. Il gruppo Christian Solidarity ha raccolto decine di testimonianze agghiaccianti tra gli 800 schiavi liberati finora con il riscatto. Sono voci molto chiare: uomini e donne strappati alla loro vita per finire nei campi, nelle fabbriche, nelle case private di chi li ha comprati seguendo un preciso listino di prezzi. La compravendita avviene in certe località - disseminate lungo le vecchie carovaniere - che tutti conoscono come mercati specializzati in esseri umani. Come per gli africani che finivano nelle piantagioni di canna da zucchero delle Antille o delle Americhe, questi schiavi moderni finiscono senza nome, senza identità, senza stipendio, senza famiglia. Ostaggi per sempre, senza alcun diritto. Sfruttati come animali, lontani da sguardi indiscreti. L'Africa è ancora in catene, ma l'Occidente fatica a capire. Sembra impossibile che la schiavitù esista ancora in questa forma antica. Ma Daniele Comboni, il missionario che fu primo vescovo di Kartoum, aveva lanciato il primo allarme: «L'abolizione dello schiavismo, deciso dalle potenze europee a Parigi nel 1856, è lettera morta per l'Africa Centrale!». Una frase che i suoi successori continuano a ripetere tale e quale, un secolo dopo.
«E' un tema su cui si toccano sensibilità enormi. Per una parte del mondo islamico, la schiavitù fa parte di una tradizione antica difficile da superare», dicono alla Anti Slavery Society. Le ragioni della politica impongono prudenza.

E il traffico d'uomini prosegue. Il riscatto, quando arriva, arriva troppo tardi. Come dice Bol Majok, un ragazzo sudanese di 11 anni: «Mi hanno liberato, ma ho perso la mia famiglia. Sono solo e non so cosa fare di me». Uno dei tanti che, forse, si porteranno per sempre le catene addosso.

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