Kosovo, gli zingari nella spirale dell'odio
Scatta la vendetta: i rom sono le nuove vittime. Da Pec a Pristina, accampamenti e case saccheggiati e dati alle fiamme sistematicamente.
Corriere della Sera, 27 giugno 1999
PEC - Era il passaporto per la salvezza. Una parola d'ordine che, anche nei momenti peggiori, teneva lontani i saccheggi, gli incendi, le devastazioni. Gli abitanti di una casa di mattoni rossi vicino alla stazione dei pullman l'avevano pennellata in fretta e furia tre mesi fa, all'inizio dell'inferno, quando i serbi bussavano porta a porta per compilare la lista degli amici e quella dei nemici. La scritta diceva, in grandi lettere di vernice bianca: Romi Koce, casa zingara. E una croce serba faceva da sigillo di garanzia. Oggi quel passaporto è scaduto. La casa di mattoni rossi è vuota, abbandonata. Gli zingari che l'abitavano sono da qualche parte lungo la rotta dell'esilio che porta i serbi e i loro collaborazionis ti verso il Montenegro. Perché oggi nella Pec delle vendette e della paura, essere Romi significa stare dalla parte sbagliata. Dalla parte di chi deve fare le valigie, accusato di complicità nei massacri. Nel Kosovo liberato dove si incendiano le case e di notte l'Uck spara, zingaro significa filo-serbo.
«Quelli della casa in mattoni rossi erano i miei vicini. Li ho odiati dal giorno in cui è toccato a me prendere la strada per il Montenegro. Loro, dal cortile, mi sputavano addosso. Si erano s chierati con il vincitore del momento, come hanno sempre fatto qui. Ma io sono tornato. E ho trovato dentro casa loro i miei mobili, i miei vestiti, le mie cose», dice Nejmeddin Zekai, 24 anni, rientrato tre giorni fa da un campo profughi. Sul marcia piede di questa città distrutta che si sta velocemente ripopolando, Nejmeddin si vanta dei ristoranti, dei bar e del conto in banca da 3 miliardi di lire che la sua famiglia possedeva prima della guerra. E promette: «Tra un anno avremo trasformato questo posto. A noi interessano solo il business e la pace. Ma zingari e serbi no, quelli non li vogliamo più».
Quasi tutti gli albanesi la pensano come Nejmeddin. E la minoranza zingara è quindi costretta alla fuga. Chi aveva scritto Romi Koce sul muro di casa, stava inconsapevolmente firmando la propria condanna. L'organizzazione internazionale Human Rights Watch, dopo una settimana di indagine, ha concluso che l'Uck è responsabile di «abusi sistematici» nei confronti degli zingari, oltre che dei serbi. Interi accampamenti zingari sono stati dati alle fiamme, anche a Pristina nella notte bruciavano le case dei rom. Ci sono stati pestaggi e delitti: perché a Pec e in tutto il Kosovo la gente giura che i Romi, nei mesi scorsi hanno commesso atrocità al fianco dei serbi.
Si punta il dito contro i gabel, uno dei due clan di zingari kosovari, quello che parla un dialetto vicino al serbo e che ha al proprio interno molti rom di religione ortodossa. I più poveri, i più disperati. A loro i paramilitari serbi avevano affidato il lavoro sporco: scavare le fosse comuni, depredare le case albanesi dopo che i serbi avevano portato via i pezzi più pregiati. Sono loro - si dice - che hanno fatto da informatori, segnalando alle squadracce serbe quale casa era albanese e quale no. L'altro clan, quello dei maxhup, si è invece mantenuto più neutrale. Alcuni di loro sono stati perseguitati perché parlano albanese e sono musulmani. Ma nonostante questa divisione tra gabel e maxhup, la guerra del Kosovo ha segnalato probabilmente la fine della presenza centenaria di una forte minoranza rom. Basta andare in un quartiere di Pec pieno di macerie che si chiama Lagjae Maxhupeve, luogo degli zingari. Le case sono tutte vuote. Davanti a ciascuna c'è un'auto o un carro che sta caricando mobili, vestiti, posate, piatti. Un omone che cerca di infilare un divano nella sua vecchia Yugo arancione dice: «Era tutta roba mia che gli zingari mi avevano rubato. Ora me la riprendo». Impossibile verificare se dice la verità.
Di tutto il quartiere zingaro resta solo, impaurita, la famiglia di Hassan Rama: cinque bambini sporchi e affamati, una moglie che mostra trent'anni più della sua età e lui, Hassan, che stringe in mano il rosario musulmano e agli albanesi che vengono a chiedergli cosa ci fa ancora lì spiega tremando: «Sono uno dei vostri. Io non ho mai fatto nulla di male. Sono un maxhup». Sua moglie: «Sappiamo cosa hanno fatto gli altri zingari: le accuse sono vere». E ora? «Chi cerca guai li trova».
Per ora la famiglia Rama resta. Ma a Pec le già scarse riserve di tolleranza si stanno esaurendo mano a mano che la città torna alla normalità. Gli albanesi rientrano e vedono le proprie case bruciate o ascoltano i racconti dei sopra vvissuti o visitano la camera della tortura trovata dai carabinieri italiani nell'ex comando della polizia militare serba. «Zingari: devono andarsene. O li pestiamo tutti. Per me sono peggio dei serbi», dice Genc, 21 anni. Sono minacce già diventate realtà. E con il ritorno dei prigionieri che i serbi si erano portati con sé nella ritirata, l'atmosfera si sta facendo ancora più vendicativa. Ieri sono arrivati in una colonna di autobus, nel pomeriggio. Erano 118 (dei 166 liberati da un carcere serbo), magri come appena usciti da un lager. Hanno parlato di torture. Belgrado ha deciso di rilasciarli, ma ne mancano migliaia all'appello. La gente li ha festeggiati come eroi. Molti non hanno più casa. Forse prenderanno il posto degli zingari.