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Riccardo Orizio

Turchia: “Ho 12 anni, cucivo cinture, in nero”
Le testimonianze sulla fabbrica turca Bermuda.

Corriere della Sera, 12 aprile 1999

ISTANBUL - Ci puoi raccontare la tua storia?
«Sono nata il 16 agosto 1983. Questo è il mio documento di identità. Mi chiamo S.A. Ho iniziato a lavorare alla fabbrica Bermuda di Istanbul il tredicesimo giorno dell'ottavo mese del 1995. Avevo 12 anni. Non mi hanno mai assicurata. Venivo pagata alla fine della settimana, in contanti e senza ricevuta. Quando l'età è diventata legale, allora mi hanno assunta con i contributi e l'assicurazione sociale». Quanti lavoratori c'erano in fabbrica? «Circa 200, forse 250». Secondo te, quanti erano al di sotto dei 15 anni? «Prima che arrivavate voi, quel giorno che abbiamo visto te e il tuo amico entrare in fabbrica, cioè prima che accadessero questi fatti, c'erano più persone che lavoravano, e metà erano bambini».

Metà? Sei sicura? «Non li ho mai contati. Non so se metà o un terzo. Insomma, erano tanti. Ci chiamavano garzoni. Mi ricordo di H. Lavorava al mio fianco. Teneva le cinture. Io lavoravo alle macchine delle cinture e il bambino non tene va la cintura dritta, così il lavoro veniva male. Per questo O., uno dei capifabbrica, gli diede due o tre sberle. Magari lei non ci crede, ma il bambino volò da qui a lì. E' proprio volato, quando lo ha colpito. E dopo c'era un altro bambino, si chiamava R., gli ha fatto la stessa cosa: ceffoni, perché giocava, come capita con i bambini. O. ha maltrattato anche me, sull'autobus aziendale che mi portava a casa». Davanti alla telecamera di un operatore turco e davanti ai taccuini del cronista i taliano e del giornalista Ali Isingor, le sorelle Z., S. e C. - che ora hanno rispettivamente 16, 17 e 22 anni - raccontano così la propria esperienza di lavoratrici nella fabbrica Bermuda di Istanbul. L'intervista è una delle tante raccolte, registrate e filmate dal Corriere per predisporre la difesa in seguito all'annuncio di querela da parte di Benetton per la pubblicazione di un'inchiesta svolta proprio all'interno della fabbrica Bermuda. Fabbrica che produce capi di abbigliamento per conto di Bogazici, il partner turco del gruppo di Ponzano Veneto. Nonostante i controlli di qualità svolti dai tecnici Benetton, la Bermuda - così come la maggioranza delle fabbriche tessili di Istanbul che producono per grandi marchi internazionali - impiegava lavoratori a partire dagli undici anni. Assunti in nero, naturalmente senza contributi, secondo le testimonianze raccolte dal Corriere molti di questi bambini andavano in fabbrica al seguito di un fratello o di una sorella maggiori. La paga che ricevevano era pari alla metà di quella di un adulto.

Ecco alcuni brani tratti da alcune interviste. Per proteggere l'incolumità dei bambini, i loro nomi vengono indicati con iniziali di fantasia: i nomi reali, i relativi documenti e le fotografie e i filmati verranno consegnati alla magistratura. S.O., 14 anni, lavoratore di Bermuda tra il 1996 e il 1997: Quanto guadagnavi alla Bermuda? «Dodici milioni di lire turche al mese, 70 mila lire (60 mila lire italiane, ndr)». Che orario facevi? «Dal mattino alle 8.30 alle 18.30». Che lavoro facevi? «Le asole. Tenevo la macchina». S.M., 16 anni, curda: «Mio fratello M. è uno dei bambini che avevate fotografato per il primo articolo. Ha 13 anni. Per 5 o 6 anni ha lavorato da un barbiere, poi è entrato in fabbrica come me». Il sindacalista I.: «Lunedì andrò al sindacato e dirò che vi ho trovati. Magari poi vi chiederanno di andare al sindacato e raccontare che M. lavorava lì (alla Bermuda, ndr) e che non era assicurato». La madre di S. e di M.: «Il bambino è in minore età, poi non ci accadrà qualcosa per questo?». Il sindacalista I.: «Quella ditta è grande, se ha fatto lavorare i bambini poi dovrà anche mandarli a scuola e aiutarli economicamente. Ci sono i contratti, i contratti internazionali, riesco a spiegarmi? E ci sono 30-40 bambini nella situazione di M.».

Sua madre: «Ce ne sono tanti, tanti. Non sono solo 30-40». Sindacalista I.: «Dovete salvaguardare i vostri diritti. Andare al sindacato. Ma potete anche rifiutarvi...». Il padre di S. e di M.: «Non esiste una cosa così. Diremo la verità anche lì». Arriva M., fratello di S., e mostra il suo documento d'identità. Viene fotografato. M., tu hai 13 anni. Quanti bambini come te c'erano alla Bermuda? «Tanti. Ma prima che arrivavate voi, quando le scuole erano chiuse, erano di più». Cosa è successo il giorno in cui è uscito l'articolo? S.: «Hanno licenziato tutti i bambini. Quel giorno mio nonno è deceduto e noi siamo andati a Diyarbakir. Loro ci hanno raggiunto telefonicamente. Io non c'ero. Hanno parlato con mio fratello M. e gli hanno detto "Attenzione, non venite qui". In seguito io sono andata alla fabbrica per vedere cosa succedeva e hanno detto: "M. ha parlato con i giornalisti, hanno fatto la sua foto, lo abbiamo licenziato e lui qui non ci viene più».

D.S., 14 anni, intervistato con sua madre in un quartiere di Istanbul dove molti bambini devono andare a lavorare: «Il giorno in cui si è saputo del vostro articolo ero in fabbrica. Ci hanno buttati fuori in molti. E non mi hanno dato neppure la liquidazione». La madre: «Stai zitto». D.: «E io invece parlo. Neppure la liquidazione ci hanno dato».

 

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