Grecia: a Patrasso nel campo-profughi dei disperati
Corriere della Sera, 3 gennaio 1998
PATRASSO - «'Taliano! 'Taliano! Vieni qui. Ripeti quello che hai detto. Ci volete dare l'asilo politico? Ma sei sicuro? Solo a chi arriva a Otranto o a tutti quanti? E quando scade l'offerta? Guarda queste botte sulla caviglia. E guarda questa mano fasciata. Sono stati i carabinieri di Brindisi, tre settimane fa. Era il mio quarto tentativo e, come le altre volte, mi hanno ributtato indietro, qui in Grecia, usando le maniere forti. Perché ora dovrebbero aver cambiato idea, quei carabinieri? 'Taliano, ascoltami. In Irak facevo il giornalista anch'io. Da collega a collega, dimmi: questa storia dell'asilo è un trucco?».
Nella stazione abbandonata di Patrasso, in mezzo ai vagoni ferroviari trasformati in baracche da terremotati della Storia, Jumal Ahmed e gli altri 350 curdi non ci vogliono credere. Da due mesi fanno anticamera in questo buco fetido rubato al porto, con qualche tenda canadese ma niente bagni, niente cucine, niente riscaldamento. Sono 350 curdi dell'Irak, fuggiti da Saddam Hussein: gente che ha fatto la guerriglia sopravvivendo ai bombardamenti chimici, al freddo delle montagne, alle incursioni dell'esercito turco. Molti altri ce l'hanno già fatta e sono in Italia. Chi è ancora qui ci prova, notte dopo notte. Alla spicciolata perché il governo greco non autorizza l'affitto di navi intere.
Jumal Ahmed parla un po' di inglese e i suoi amici, tutti con i mustacchi e le mani callose, gli picchiano sulla spalla per costringerlo a tradurre ancora allo straniero la domanda che tutti stanno urlando: «Ma se andiamo in Italia, non ci rimandano indietro? Davvero ci autorizzano a restare?».
Il campo-profughi di Patrasso, 20 ore di traghetto da Ancona e da Brindisi, è illegale come i disperati che lo abitano. Una delle tante tappe di avvicinamento di questa silenziosa via crucis, che sta trasportando verso il cuore dell'Europa centinaia di migliaia di curdi della Turchia e dell'Irak. Chi è arrivato fin qui ha alle spalle avventure di ogni tipo e migliaia di dollari pagati ai mediatori.
Per loro, ormai, l'Italia è vicina. Basta una notte infilati nel Tir caricato a bordo di un traghetto - e altri 500-700 dollari pagati a una «mafia» curda vicina al partito Pdk del leader (ora filo-Saddam) Massud Barzani - per mettersi la fame alle spalle. La Grecia non ha scelta: per ragioni politiche (l'antica rivalità con la Turchia) e logistiche (le frontiere sono troppo permeabili per fermare l'esodo), si è rassegnata a fare da piattaforma di lancio della grande fuga dei clandestini curdi. Il rappresentante in Italia del Fronte di liberazione curdo, Ahmet Yaman, ha annunciato ieri che altre tre navi sono in questo momento in navigazione, decise a raggiungere le coste italiane appena i timonieri del racket lo ritengono opportuno. Due carrette sarebbero partite prima di Capodanno da Istanbul e Cannakale. Una terza nave, salpata ieri, sta attraversando l'Egeo. In totale oltre un migliaio di profughi in arrivo, per adesso ancora in oscillazione tra Grecia, Albania e Puglia, ma decisi a tutto pur di arrivare in quella che i profughi accampati nel fango di Patrasso chiamano «la vera Europa». Cioè la Germania, la Scandinavia, il Belgio. L'Europa dove i curdi possono trovare posti di lavoro, alloggi presso amici e parenti, organizzazioni politiche ansiose di reclutarli.
Per questo itinerario, la scelta di Patrasso sembra ovvia: è un porto importante per l'Adriatico, che di sera si riempie di camion arrivati da tutti i Balcani. L'ideale per sbarcare in Italia senza dover passare sotto le forche caudine della malavita albanese. «All'inizio i curdi erano poche decine. Poi centinaia. La gente li ha sfamati di nascosto. Per i greci il curdo è un fratello perché è perseguitato da gli odiati turchi», racconta Alì, l'uomo che qui rappresenta il disciplinatissimo partito marxista Pkk, «bestia nera» del governo di Ankara.
Quella dei curdi è una diaspora divisa dalle ideologie, dagli interessi economici, e anche dalle vie di fuga. Chi parte dalla Turchia, viene spesso «accompagnato» sulle carrette dei mari dalla polizia turca, che chiude volentieri un occhio. Chi viene dall'Irak, attraversa l'Egeo in barche più piccole. Oppure cammina di notte sui sentieri di montagna. E poi finisce per convergere su Patrasso, tra le tende e i vagoni ferroviari dietro la dogana marittima. Vigili, doganieri e poliziotti greci fanno finta di non vedere. «Tanto, sanno che chi arriva qui, nel giro di qualche settimana riesce ad andarsene. Qui i curdi sono solo di passaggio», dice Alì, che fino a poco tempo fa insegnava Shakespeare all'università di Arbil, nel Kurdistan iracheno. Tra i vagoni ferroviari di Patrasso, intanto, corrono i soldi. Prima che faccia buio i capibanda passano a riscuotere l'obolo di chi vuole partire questa notte.
Banconote da cento marchi e da cento dollari escono dalle cinture e dai sacchi a pelo. Nei parcheggi, i camionisti fingono di non sapere che la mafia curda e greca apre i rimorchi e fa entrare la propria merce umana. Mentre avvengono le contrattazioni, un ragazzo alto e forte come un atleta si mette a urlare. Gli altri cercano di calmarlo. E lui disobbedisce. «Giornalista, guarda bene perché sono qui», grida. E, circondato dai volti torvi dei suoi amici, si toglie la camicia per mostrare una lunga fila di cicatrici circolari. E poi si alza i pantaloni sopra il polpaccio: altri rosari di vecchie ferite, lasciati in ricordo dagli aguzzini di Saddam Hussein. «Mi hanno messo in galera e torturato. Poi sono riuscito a scappare», dice Ahmed Mohamed, 27 anni che sembrano il doppio.
Poi lo fanno tacere. I profughi sono organizzati militarmente e i peones non sono autorizzati a parlare. Arriva uno dei capi, con un inglese forbito. Lui questa notte non parte, ma si sente in dovere di ringraziare lo stesso l'Italia, a modo suo: «Desidero esprimere la mia riconoscenza al governo italiano - annuncia solenne - e, in particolare, a quel leader di partito legato ai compagni di Mosca. Come si chiama? Ah sì, D'Alema. Mi hanno detto che, se riusciamo a scappare dal fascismo di Saddam e della Turchia, è soprattutto merito suo».