Tir, visti e alberghi: la storia di una profuga curda
che racconta la sua odissea dall'Irak alla Grecia.
Derubati dai boss, massacrati di botte dalla polizia greca: ecco tutte le tappe dell'odissea dei clandestini di una guerra schifosa. "Tutte le fazioni in lotta tradiscono il mio popolo". Una donna scappata dal Kurdistan iracheno denuncia la complicita di Ankara nella fuga dei disperati. "Ti garantiscono l'ingresso nel loro Paese e il viaggio Poi a Istanbul sistemano la gente nelle bettole"
Corriere della Sera, 4 gennaio 1998
ARGYOSTEFANOS (Atene) - E' in tuta e zoccoli, con qualche traccia di smalto sulle unghie. Peserà sì e no quaranta chili, con la frangetta sugli occhi verdi. Ma gli omaccioni baffuti del campo-profughi di Argyostefanos, un sobborg o-bene a 20 chilometri da Atene, dipendono tutti da lei: è l'unica che parla inglese. Per le 150 persone accampate nell'ex albergo abbandonato di questo villaggio greco, tra poltrone rotte e pezzi di abatjour, la fragile Hero è l'unico mezzo per comu nicare con il mondo esterno. Ma la curda Hero ha anche una propria storia da raccontare. Eccola, tappa per tappa, umiliazione dopo umiliazione.
«Mi chiamo Hero Jaff, sono laureata, ho 23 anni e scusatemi se ogni tanto mi emoziono. Da un po' di temp o mi succede spesso: rido e piango, piango e rido. Non so cosa mi prende: sarà il nervosismo, sarà il fatto che sono sola ed è la prima volta che mi trovo lontano da casa e dai miei genitori. Le lingue? Le ho imparate sui libri. Prima di fuggire ero prigioniera di una dittatura spietata, non potevo certo viaggiare. Comunque, questa è la mia storia. Ve la racconto per sfogarmi, ma anche perché voi italiani meritate di sapere la verità. E io spero di riuscire a venire presto in Italia per ricominc iare tutto da capo. Sono stanca di vivere di carità, in questo albergo dai vetri rotti. E' una zona elegante, piena di chalet, di belle macchine e di ristorantini dove arrostiscono la porchetta. Ma io non sono qui per questo. Non sono finita in Greci a per fame o miseria, ma per colpa di una disgustosa guerra civile tra fazioni curde. Tutte egualmente colpevoli. Tutte impegnate a tradire la propria gente per i giochi di potere.
Se vi raccontano che scappiamo per ragioni economiche, non credeteci. Ci lasciamo alle spalle un lavoro, una casa, un'auto, insomma le cose normali che avete voi. E abbiamo in tasca dollari e marchi. Ma per mantenere la dignità non bastano. «Fino a qualche settimana fa in tasca avevo anche un passaporto iracheno, pe rché vengo da una città che si chiama Suleymania, nel Kurdistan occupato dal dittatore Saddam Hussein. Non ditemi che sono irachena, perché mi sento solo curda. Il passaporto l'ho buttato, come fanno tutti, nel fiume Evros, quello che divide Turchia e Grecia: se la polizia greca te lo trova addosso può rispedirti a Bagdad. Cioè a morte sicura. Così, invece, potrei anche essere turca o siriana o iraniana. E, nell'incertezza, non vengo rimandata da nessuna parte.
«Avevo anche un fratello: l'ho perso per strada, lungo il viaggio che mi ha portato in questo edificio abbandonato. E' un paradiso a cinque stelle rispetto alle tende dove sono rimasta per settimane, sotto la pioggia di novembre. Al primo piano abbiamo riaperto le cucine. Nella ver anda io faccio scuola ai bambini, perché a Suleimanya ero di ruolo alle elementari. Ma non ci fa bene stare qui, a impigrire. Noi vogliamo lavorare. Tra le 150 persone che vivono sui materassi buttati per terra ci sono ingegneri, professori, commerci anti. Io dormo nell'ex stanza numero 25, con una famiglia di insegnanti. «Il mio viaggio è iniziato in una cittadina del Kurdistan iracheno che si chiama Dohuk. Lì, e nella vicina Zakho, un'organizzazione di turkmeni vende i visti per la Turchia. I turkmeni sono una minoranza di lingua turca che vive in Irak. Si sono alleati al governo di Ankara, al leader curdo Barzani e a Saddam. Tu vai da loro, dici che vuoi partire e paghi: 600 dollari a testa se puoi aspettare settimane, 3000 dollari se v uoi partire la notte stessa. Sembrano quasi contenti che ce ne andiamo. Ti danno un visto per la Turchia della durata di dieci giorni. C'è scritto - pensate - soggiorno turistico.
«Io e mio fratello abbiamo iniziato la "vacanza" nel rimorchio di un Tir. Sempre al buio, senza mangiare o bere o andare in bagno. Due giorni dopo ci siamo trovati a Fatih, il quartiere di Istanbul dove i hanno sede i trafficanti di profughi. Per una settimana abbiamo dormito in alberghetti sporchi con centinaia di curdi, pakistani e singalesi. Molti avevano già parenti o amici in Germania o in Svezia. Volevano solo pagare e ripartire. Io mi vergogno per coloro che si approfittano di questa tragedia e ho cercato la via più legale: sono andata all'ufficio dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati e ho chiesto asilo politico. Mi hanno risposto di no. Allora mi sono rivolta a un boss curdo della mia città. Ha fatto lo sconto a me e a mio fratello: centinaia di dollari invece di migliaia. Siamo risaliti su un Tir e dopo 24 ore ci hanno scaricati al confine tra Turchia e Grecia, sul fiume Evros.
«Quella notte faceva molto freddo. Eravamo in 132 e c'erano due barchette che ci aspettavano. Mi sentivo così male che, a un certo punto, ho chiesto di ess ere sbarcata. Ho detto a mio fratello: "Tu vai avanti. Ti auguro buona fortuna. Un giorno ci rivedremo". Ma lui ha voluto venire con me, insieme a una famiglia che aveva dei poppanti vicini all'assideramento. Abbiamo camminato fino alla città di Fere s, al di là del confine. La gente ci ha ricoverati nella chiesa ortodossa. Il mattino dopo abbiamo comprato dei biglietti di autobus per Atene. Ma era una trappola. L'autista ha chiamato i poliziotti e siamo tutti finiti in prigione. Lì ci hanno picc hiati con i bastoni lunghi e uno di noi si è messo a sanguinare così forte che pensavamo morisse. I greci hanno chiamato un medico. Erano le 4 di notte. Le famiglie con bambini urlavano: "Per favore, non deportateci". Ma sapevamo che saremmo stati ri spediti indietro quella notte stessa. Sapete, i rimpatri avvengono il lunedì e il mercoledì. E quello era proprio un lunedì.
«Io mi sono salvata perché parlo inglese. Così i poliziotti mi hanno ordinato di accompagnare il malato nell'ospedale di Al essandropoli, come interprete. E' una città di confine dalla quale transitano molti profughi. Lì un infermiere, mentre curava il ferito, mi ha detto: "Hero, se torni a Feres ti rimandano in Turchia. Vattene. Dirò che sei scappata". Così, in corriera, sono arrivata a Atene, nelle tende gestite dal partito curdo Pkk. Mio fratello? E' stato deportato a Istanbul, massacrato di botte. Ma me la sento: è uno di quei 10 mila che stanno ritentando di partire in queste ore. Ci siamo dati appuntamento. In Italia».