Talk of the Devil
Parola del diavolo.

IL MESSAGGERO
29 giugno 2002
Quei despoti, pensionati dell'orrore
di Mario Ajello
Su un sito Internet tutto colorato di nero, Baby Doc, soprannome dell’ex dittatore Jean-Claude Duvalier, lancia i suoi messaggi: «Haiti, ti offro il mio coraggio!». Dalla sua cella di Miami, “Faccia d’Ananas", il padrone di Panama inventato e deposto dagli Stati Uniti, crede nella propria resurrezione politica e manda un biglietto: «Dio, il grande creatore dell’universo, non ha ancora finito di scrivere l’ultimo capitolo su Manuel Antonio Noriega». O c’è il proverbiale Bokassa, l’ex imperatore del Centrafrica, che era un megalomane ed è morto povero nel ’96 ma fece in tempo ad avvertire nel ’94: «Il nuovo premier italiano, Berlusconi, mi piace molto». O ancora Duvalier che ammette di non aver avuto neppure i soldi, in qualche momento del suo esilio, per pagare le bollette.

Voci uguali e diverse. Ma nessuna prova a guardare in faccia, con spietata autoanalisi, la Banalità del Male che è stata commessa proprio da loro. E loro sono gli ex dittatori, o parenti di questi, sulle cui tracce è andato in giro per il mondo il giornalista Riccardo Orizio e li ha trovati e li ha fatti confessare in Parola del Diavolo che è in uscita per Laterza. Insomma, com’è un Diavolo a riposo? Come se la passano quei dittatori, spesso sanguinari e talvolta perfino cannibali, ora che hanno perduto il potere e sono sprofondati nell’oscurità di una vita in contumacia o nella finta normalità di una esistenza in disarmo o nell’attesa di un’improbabile riscossa? In un carcere albanese di massima sicurezza, c’è uno stanzino denominato la Cella della Vedova. E dentro sopravvive nell’ipocrisia del suo candore la più anziana detenuta donna in Europa: la moglie di Enver Hoxha, a suo tempo satrapo marxista di Tirana. «Avevamo a cuore solo il benessere del nostro Paese», dichiara la signora Nexhmije Hoxha. Come se l’Albania non fosse stata un inferno. In un altro angolo del mondo, ecco Menghistu, soprannominato il Negus Rosso o il Terrore Rosso della rivoluzione etiope. Oggi ha 62 anni, i riccioli si sono ingrigiti, la sua gabbia sono sei stanze in un quartiere residenziale di Harare in Zimbabwe, ospite del “compagno Mugabe".

A Gedda, in Arabia Saudita, vive un uomo da leggenda, nerissima come il colore della sua pelle. Settantadue anni, un metro e 96 di statura per 150 chili, scomparso dalle cronache internazionali che un tempo dominava a causa delle sue crudeltà romanzesche. Il gigante a riposo è Idi Amin Dada, il caporale diventato dal ’71 per quasi un decennio il sanguinario “Big Daddy" dell’Uganda e che si era vantato di essere un cannibale anche se «la carne umana è troppo salata per i miei gusti». «Vuoi trovarlo?», chiede un informatore ad Orizio che è volato a Gedda alla ricerca del suo anti-eroe. «Basta che frequenti le palestre».

Amin infatti ha sempre amato il pugilato e coltiva la sua passione anche a Gedda. Dove arrivò nel 1980, a bordo di un jet Alitalia (dei servizi segreti?) messogli a disposizione da Gheddafi il quale era riuscito a salvarlo dal linciaggio organizzato dagli insorti ugandesi e dalle truppe della Tanzania. Da allora, Amin riceve uno stipendio dal governo saudita in nome della “solidarietà islamica". E si allena sul ring, o nuota, o passa le sue giornate armeggiando fra telecomando e antenne satellitari che gli piacciono tanto. O si abbandona ai ricordi: «Gli americani e gli inglesi dicevano che ero pazzo, perché non ero un loro lacchè. Le sembro pazzo, io?». Una vita da pensionato del terrore - ai bei tempi il presidente ugandese ordinava di decapitare gli oppositori in diretta tivù ma solo dopo aver specificato: «Fate loro indossare abiti bianchi, così il sangue si vede di più!» - ma che non si sente affatto in pensione. E rilascia interviste del tipo: «Vi anticipo che truppe a me fedeli stanno riconquistando Kampala, guidate dal comandante Nove-Nove».
Infatti Amin traffica con spedizionieri italiani, per inviare armi ai suoi sostenitori in Uganda. E Orizio lo guarda come «un vecchio pugile caduto al tappeto, ma non ancora ko».

Se Pinochet è sempre potentissimo e Imelda Marcos è tornata a Manila e ha creato una collezione di scarpe griffate, Bokassa non c’è più ma la sua storia resta simile a quella di Amin: entrambi accusati di cannibalismo, entrambi convertiti all’Islam per far piacere al colonnello Gheddafi e ricevere i suoi petrodollari, entrambi scalzati dal potere nel ’79. Giudicare questi Diavoli si può? E’ possibile capire per esempio la Banalità del Male di una Milosevic, la moglie, la Strega Rossa, che dopo aver reso la Serbia un inferno col suo complice processato ora all’Aja, trascorre i pomeriggi a parlare al telefono con il marito detenuto cinguettando come in un disegno di Peynet: «Amorinoooo...»?
Orizio ascolta le loro voci, perché «possiamo soltanto studiarli, i Diavoli». Sono storie da teatro tragico, tutte queste. E Ian McKellen, immenso attore che per 40 anni ha impersonato mostri di ogni epoca, da Jago a Rasputin, suggerisce l’approccio migliore: «Studiando coloro che compiono atti terribili, ho dedotto che anche loro sono umani. E che chiunque di noi è capace di tutto. O quasi».