RAI 24 Il libro racconta sei storie, ma sarebbe meglio dire decine di vicende dentro le sei storie principali, che sono quelle di sei tribù bianche isolate in microcosmi lontani: piccoli villaggi che cercano in qualche modo la loro utopia e il loro modo di essere, ben lontani dalla madrepatria. Sono tutti discendenti dei colonizzatori. Sì, la prima storia è dello Sri Lanka, ambientata nella capitale Colombo. Lì vivono da quattro secoli i Dutch Burgers, discendenti dei coloni olandesi appunto che colonizzarono Ceylon, come si chiamava allora. Nei Caraibi in una sperduta"parrocchia" (così si chiamano le province giamaicane) vivono i discendenti di tedeschi importati come schiavi bianchi nell’Ottocento. La terza storia è americana. In Brasile, nello Stato di San Paolo sembra di incontrare le comparse di "Via col vento": sono brasiliani discendenti di una colonia di quei confederati che abbandonarono gli Stati Uniti dopo la guerra civile. Nelle campagne di Haiti, in un mondo dove non c'è acqua, né elettricità, non c'è telefono, scuola, ospedale ci sono haitiani di pelle bianca o quasi, discendenti di quei soldati che Napoleone portò con sé dalla Polonia all'inizio dell’Ottocento per combattere la rivolta degli schiavi neri dell'isola. La rivolta venne vinta dagli schiavi, Napoleone dovette abbandonare Haiti e i polacchi, che nel frattempo si erano schierati con gli schiavi, restarono. In Africa, in mezzo al deserto del Namib, uno dei più grandi deserti del mondo, ci sono i Basters, che vivono in una città dal nome biblico di Rehobot. Sono discendenti di pionieri olandesi e di donne boscimane e ottentotte. Ancora dai Carabi viene l’ultima storia, quella dei Blancs Matignon, francesi che non si sono mai spostati dal loro piccolo arcipelago. Ha sviluppato questo progetto in cinque anni. Qual è il senso di questo progetto di ricercare gente che vive assolutamente fuori dei percorsi tradizionali e da quello che generalmente riprendono le telecamere. Il senso è quello di rovesciare il paradosso. Innanzitutto noi viviamo in un'epoca in cui vediamo le nostre città, l'Europa e il mondo occidentale sempre più popolato da volti che sono diversi dai nostri. Nei confronti di questa emigrazione ci sono atteggiamenti diversi, spesso c'è una difficoltà ad accettare i nuovi abitanti dei nostri continenti, si parla di razzismo, e io ho voluto vedere come lo stesso problema si potesse affrontare in modo rovesciato. Ho voluto vedere cosa vuol dire avere il colore sbagliato della pelle ma essere bianchi e posso assicurare che i problemi sono spesso molto simili. E’ stato anche un modo per rendere omaggio all'epopea dei singoli individui che ancora oggi resistono in questi avamposti di mondo coloniale ma senza i privilegi, lo sfarzo, le ricchezze di alcuni dei loro antenati. Anzi spesso sono più poveri dei poveri. Mi sembrava che fosse giusto andare a raccontare anche le loro vicende, vicende di periferia, ma a volte nelle periferie si esprimono dei valori che sono universali. "Siamo in Giamaica, dovremmo essere la nazione più multietnica del mondo - dice uno dei tanti interlocutori di Orizio - perché ci siamo mescolati per secoli tra bianchi e neri, cinesi e arabi. Invece le classi sociali e esistono ancora, e come. E guarda caso coincidono con il colore della pelle. Se dici che sei indiano o cinese sei già classificato. Sai che abbiamo diciassette definizioni diverse per diciassette diverse gradazioni di carnagione, dal candido al nero?" Il colore della pelle sembra determinante. È proprio una società basata sull’occhio la nostra, per cui tendiamo a classificare sulla base di ciò che vediamo, per colori? Non so se sia per ragioni estetico-visive. Anzi, non credo che sia per questo, ma certamente la pelle è il modo più facile per classificarci tra di noi, il modo più primitivo, è lo strumento che viene più spontaneo e più semplice. A dirmi questa frase era un giamaicano bianco, con i capelli pettinati alla moda rasta, un giovane che ha vissuto a lungo Germania, dove ha imparato all'arrivo la lingua dei propri avi e poi è tornato perché in fondo si è reso conto di non poter davvero vivere in Europa. È tornato in mezzo le piantagioni di banane, in mezzo alla propria gente, gente povera. Poveri come i Matignon della Guadalupa, dove però il punto della pelle bianca e la difesa quasi ossessiva che a volte noi possa poi sembrare vecchia, antiquata, di questa unicità della propria pelle in quel contesto, e uno strumento di sopravvivenza. Nel leggere queste storie in cui si intrecciano molte storie personali, piccole grandi storie, sembra di vedere dei pionieri che in qualche modo guardano all'indietro. Che cos'è questa ricerca dell'utopia che guarda sempre al passato? E’ verissimo. Il passato in fondo è l'unica cosa che conoscono e che hanno, il futuro per loro non esiste, queste sono le uniche e le ultime generazioni di tribù bianche perdute, per motivi anche di sopravvivenza fisica. I membri di queste tribù perdute sono destinati a sposarsi al di fuori della propria comunità, al di fuori del proprio colore di pelle, sono destinati a morire come collettività e quindi si aggrappano al passato. Ma è un modo anche per avere nostalgia di un mondo che sembrava migliore. La cosa più drammatica è che il passato è solamente un’idea mitologica, perché sono pochissimi quelli che tra di loro riescono ad agguantare psichicamente questo passato. Sono pochi quelli che riescono a salire su una nave, su un aereo e tornare in Europa. In fondo sono prigionieri di se stessi, sono come i boeri del Sudafrica, non hanno una patria dove andare, non hanno rifugio il quale fisicamente scappare e quindi vivono in una perenne crisi di identità, sospesi tra un passato che non c'è più e un presente che spesso si rifiutano di accettare. Nel suo libro ritorna sempre il tema della schiavitù, vecchia e nuova. A un certo punto dice: "Sono tutti schiavi, sia gli schiavi che gli schiavisti", un tema che torna prepotentemente alla ribalta in questo periodo. Sì, la schiavitù e una realtà che ancora oggi condiziona pesantemente le coscienze e la vita materiale di decine di milioni di persone nei paesi che noi chiamiamo in via di sviluppo. I ricordi dolorosi della schiavitù da parte di chi l’ha subita, in qualche caso perfino le non confessabili nostalgie da parte di chi invece gli schiavi li comprava e li vendeva, ma anche la tradizione culturale, morale, narrativa legata al tema della schiavitù, il senso di identità che è nato durante quella tragedia, non si sono ancora cancellati. Ma la cosa più paradossale è che questi bianchi, che in passato sono stati schiavisti, oggi sono loro stessi ridotti allo stato di schiavitù. Sono i più poveri tra i poveri, spesso discriminati. Ma c’è un episodio che ho scoperto in Giamaica e che mi sembra piuttosto sintomatico e simbolico: quando girarono il film "Papillon", con Dustin Hoffman e Steve McQueen, cercarono delle comparse che avessero il volto emaciato, insomma l’aspetto degli ergastolani. Li trovarono nel villaggio dei tedeschi di Seaford Town, nel mezzo delle foreste della Giamaica. Questi tedeschi dovevano semplicemente interpretare il ruolo che interpretano nella vita di tutti i giorni, quella degli sconfitti, gli affamati, degli umiliati. Quindi nella scena del film dove c'è un'esecuzione del cortile della prigione, i prigionieri che assistano a questa esecuzione sono i tedeschi della Giamaica. C'è un altro filo rosso che percorre le varie storie. C'è sempre una sorta di attesa del Messia: i polacchi di Casales ad Haiti aspettano, e hanno anche modo di incontrare il Papa, in visita alcuni anni fa. I Blancs Matignon, i francesi di Les Saintes, vantano, e non si capisce se è un mito creato, una leggenda o una realtà, parentele con i Ranieri di Monaco. Sì, è l’attesa di qualcuno che con un colpo di bacchetta magica li sollevi da questa disperazione, che non è solo una disperazione pratica, economica e materiale, ma lo è anche in senso psicologico, morale: il senso di essere abbandonati, questa consapevolezza che nessuno più si ricorda di loro. E’ un sentimento molto profondo, molto difficile. Ciascuno di loro spera che all'improvviso qualche cosa possa cambiare. Quando sono arrivato nel villaggio di polacchi di Haiti ero il primo bianco ad arrivarci dopo molti anni, mi hanno guardato il modo sospettoso, silenzioso. Sono persone per le quali non è facile comunicare con estranei. Alla fine il più coraggioso mi ha chiesto: "Vieni dalla Polonia?" perché in quanto bianco non potevo che essere polacco. Ho dovuto dirgli: no, io non vengo dalla Polonia, vengo dall'Italia." E allora la seconda domanda, dopo che si sono guardati negli occhi tra di loro, è stata: "Ma allora ti manda il Papa?" E allora ho dovuto deluderli di nuovo e dire: No, non era il Papa che mi mandava. La loro speranza di ricevere un aiuto dal Papa, dal Vaticano, in quanto polacchi ce l’hanno ancora. Sono sicuro che in parte è quella chi li mantiene vivi. In questi villaggi che sembrano essere piccoli villaggi globali, che vorrebbero essere tutti chiusi in se stessi, c'è il problema dell'identità: è quello che li conserva come comunità da un lato, ma poi all'interno di questi paesi a loro volta hanno conflitti tra famiglie, tra clan, e così via. Come ha visto il problema dell'identità sia culturale che geografica di questi villaggi? L'ho vista perfettamente descritta nelle parole delle vecchiette di un ospizio alla periferia di Colombo, la capitale dello Sri Lanka, un ospizio costruito apposta per gli anziani della comunità dei Dutch Burghers. Ebbene queste anziane signore, ultrasessantenni, settantenni, ottantenni, passano il tempo a ricostruire all'interno del loro microcosmo una specie di graduatoria della purezza della pelle, di quanto ciascuno di loro sia davvero un Dutch Burgher o un meticcio e così, in modo a volte scherzoso a volte rabbioso, ecco che si costituiscono tra di loro le sfumature che sono di colore di pelle ma anche di origine sociale: tu hai del sangue portoghese, tu non sei proprio esattamente olandese, tu vieni da quella città che è famosa per essersi meticciata molto più di quanto non abbiamo fatto noi, come ti permetti di chiamarti Dutch Burgher quando hai la pelle scura? Certo è patetico, e triste, ma per me è stata una grande lezione, nel senso che ho visto come questa tentazione disperata di classificare se stessi in relazione agli altri non è una cosa che avviene solamente nelle nostre città, ma forse un sentimento universale. E non per questo voglio dire che sia piacevole, ma è un istinto che appartiene all'essere umano, e veramente in questo caso non fa differenza di colore di pelle. Il libro parte dall'Inghilterra. E dopo aver avuto un successo clamoroso in Inghilterra e negli Stati Uniti, arriva anche in Italia. Perché questa scelta di vendere i diritti a una casa editrice londinese? Perché volevo dimostrare a me stesso che c'era la possibilità di parlare ad un pubblico universale. La mia lingua è l'italiano, io sono un giornalista italiano, ma mi sono chiesto perché il fatto di essere nato in Italia e di scrivere in una bellissima lingua come italiano debba per forza precludermi la possibilità di raccontare le mie storie, che poi sono storie che riguardano non tanto l'Italia ma altre nazioni, perché non posso raccontarlo a queste nazioni? E così ho provato a dialogare con una casa editrice inglese, l'idea è piaciuta molto e man mano verso sta uscendo in traduzione in diversi edizioni in diversi paesi. In fondo anche questo è un modo di proporsi nel villaggio globale. La nostra nazionalità, le nostre origini sono un punto fondamentale, come dimostrano le storie di queste tribù, però bisogna anche forse cercare di parlare a tutti e queste sono temi che riguardano tutti. Questo libro riporta alla luce queste tribù dimenticate. Che cosa cambia in questo senso per loro?Cosa può aver lasciato questo suo passaggio di studioso e di reporter da questi luoghi? Io non credo di aver potuto cambiare molto, credo di aver dato segnale di testimonianza. Con alcuni di questi membri di comunità sono incontrato e alcuni di loro sono stati felici anche solo di pensare di essere ricordati dall'esterno. Non credo di poter cambiare purtroppo la loro miseria quotidiana. Certo, io credo che ci fosse un debito di riconoscenza nei confronti di queste persone, che chiunque di noi poteva essere oggi in un bananeto della Giamaica o in una piantagione dello Sri Lanka: bastava che un nostro antenato decidesse di lavorare per la compagnia olandese delle Indie orientali come facevano sia molti indiani, che molti italiani, spagnoli, francesi, tedeschi. Chiunque di noi poteva finire in queste condizioni. Ho conosciuto una famiglia che si chiama Sansoni, è un nome italiano, toscano, sono i discendenti del capitano di una nave che era partita da Livorno e che faceva parte della grande flotta della compagnia olandese delle Indie orientali. I Sansoni sono ancora lì, sperduti, certo meno poveri di altri, ma per specifiche ragioni che riguardano loro famiglie. Ma sono comunque perduti, nel senso culturale, nel senso di identità. In questo cammino che ho fatto mi sono anche accorto che di tribù bianche e perdute ci sarebbero state tante altre: non si possono dimenticare gli "insabbiati", i resti dell'emigrazione coloniale nell'Africa orientale, ci sono dei genovesi che popolano l'isola di Tristan da Cuna, migliaia di chilometri a sud di Città del Capo, è uno dei luoghi più isolati e impervi del globo. Ci sono discendenti di Alessandro Magno in una valle del nord dell’Afghanistan, solo da pochissimo convertiti all'Islam, ma in realtà ancora devoti e gli dei greci, e così via. In fondo sono dei frammenti, delle schegge di umanità, sono dei fossili viventi che non è giusto dimenticare perché non solo in passato hanno rappresentato delle grandi epopee, ma perché chiunque di noi può diventare parte di una tribù bianca dimenticata. |