Lost white Tribes
Parola del diavolo.

LA REPUBBLICA
Quei bianchi dimenticati nel mondo nero.
Un libro di viaggio di Riccardo Orizio
16 novembre 2000
di Sandro Viola
Nell’epoca delle ideologie, la letteratura di viaggio conobbe una lunga eclisse. Di colpo, dopo due secoli in cui il genere aveva avuto una grande fortuna, il viaggiare per vedere e raccontare quanto di diverso, curioso, esotico esistesse ancora al mondo, fu considerato inaccettabile. Viaggiare doveva servire ad altro. A descrivere i rapporti tra proprietari delle «fazendas» e contadini nel Nordeste brasiliano, a denunciare le malefatte dell’ultimo colonialismo in Africa, a calcolare le diete (la scarsità delle diete, si capisce) degli operai cileni che lavoravano nei giacimenti di guano, e più in generale a degustare le diverse situazioni «prerivoluzionarie» che esistevano qua e là sulla terra. Ne risultò una noiosissima Quaresima: tomi ponderosi e indigeribili fitti di cifre e diagrammi, di un’aridità desolante, in bella vista negli scaffali di chi voleva essere, e soprattutto parere, «politically correct».

Poi, una quindicina d’anni fa, una rivista inglese intitolata Granta rilanciò la narrativa di viaggio in forme non molto diverse da quelle classiche. Granta riuscì a raccogliere attorno all’iniziativa giornalisti e scrittori di talento (da Jonathan Raban a Bruce Chatwin, da Salman Rushdie a Neal Ascherson, da James Fenton a Ryszard Kapuscinski), e la risposta del pubblico fu superiore a qualsiasi aspettativa. Il «travel writing» conobbe una seconda giovinezza.

Da allora, un po’ ovunque e anche in Italia, i libri di viaggio si sono moltiplicati. Diversi editori hanno addirittura varato delle collane apposite, e gli imitatori di Chatwin sono adesso una piccola folla. Ma se il più della produzione editoriale è d’interesse modesto, ciò non toglie che ogni tanto appaia qualcosa d’originale.
E’ il caso, mi sembra, del libro di Riccardo Orizio Tribù bianche perdute (Laterza, pagg. 280, lire ), che ha per sottotitolo «Viaggio tra i dimenticati». I «dimenticati» alla cui ricerca s’è mosso l’autore, sono i resti, i rottami, i fantasmi di certe comunità europee trapiantatesi in Asia, Africa e America Centrale tra Sette e Ottocento, durante i secoli della penetrazione bianca in quei continenti. Sullo sfondo dei Tropici, tra jacarande e banani, nel caldo umido dello Sri Lanka, di Haiti, della Guadeloupe e della Giamaica, in case quasi sempre cadenti, Orizio è andato a cercare queste «tribù» d’insabbiati, che oggi (per colore della pelle, status sociale, usi e cultura) non sono più niente, nè europei né popolazione locale.

Estranei, strani, non di rado deliranti, le «tribù bianche» provengono da vicende tanto straordinarie quanto sconosciute. E dopo il ripiegamento del colonialismo, partita la maggioranza dei bianchi, sono rimasti dov’erano, una retroguardia abbandonata a sé stessa in qualche angolo di «brousse» o di savana. I polacchi di Haiti, per esempio. Approdati lì nel 1803 con l’esercito napoleonico inviato a reprimere la rivolta degli schiavi neri, qualche dozzina di soldati polacchi restarono nell’isola dopo la sconfitta e fuga dei francesi di Rochambeau. E i loro discendenti sono ancora lì, in un villaggio chiamato Casales, il sangue ormai misto, la pelle quasi scura e l’identità diluita dal gran tempo trascorso.

Un destino non diverso da quello del migliaio di artigiani tedeschi condotti nel 1834-35 con l’inganno, in un paio di mandate, a tagliare canna da zucchero nell’interno malarico della Giamaica: i cui epigoni (non più d’una cinquantina) ancora sopravvivono a Seaford Tower, coi loro cognomi germanici e le lapidi del cimitero scritte in caratteri gotici.

Anche nel libro di Orizio non mancano i ricalchi dello stile Chatwin, l’omaggio al nume del nuovo «travel writing». Ma le sorprese di questo pellegrinaggio tra i «dimenticati» sono parecchie (e la maggiore è forse quella che suscitano i Blanc Matignon della Guadalupa), il ritmo del racconto è sostenuto.
Qualche ora di piacevole lettura, insomma, è assicurata.